Fig. 1 - G. Fattori, Adua (1900 circa, Pisa, Museo della Grafica-Palazzo Lanfranchi)

ADUA DI GIOVANNI FATTORI. L’IMMAGINE DI UNA SCONFITTA 

di Elena Profeti

Con la presa Presa di Porta Pia, l’annessione di Roma all’Italia e lo spostamento della capitale nella città eterna, l’epopea del Risorgimento stava volgendo al termine. La scomparsa dei principali protagonisti di questi eventi (Vittorio Emanuele II nel 1878 e Giuseppe Garibaldi nel 1882) e le profonde trasformazioni che cominciarono a interessare il paese, portarono alla ‘scomparsa’ della vecchia classe politica, quella che aveva preso parte alle battaglie per l’unificazione, che fu spazzata via dalla politica, dall’esercito e dalla cultura. 

Il 1896, l’anno della battaglia di Adua, vedeva in campo oramai personaggi molto diversi, pur se, talvolta, provenienti dal mondo precedente. Tra questi, due ex garibaldini, Francesco Crispi e Oreste Baratieri.

Francesco Crispi (Ribera, AG 1818 – Napoli 1901), l’impetuoso e combattivo patriota, determinante nella decisione per la spedizione dei Mille di Garibaldi, nell’anno di Adua era al suo secondo mandato da Presidente del Consiglio. Oreste Baratieri (Condino, TN 1841 – Sterzing, BZ 1901), uno dei Mille di Garibaldi nelle cui fila rimase fino al 1866, dal 1872 era arruolato nel Regio Esercito. Nel 1885 fu promosso colonnello e comandò il reggimento bersaglieri nelle campagne d’Africa in Eritrea nel 1887-88, 1890 e 1891. Nell’infausto 1896 era governatore dell’Eritrea da quattro anni. 

Furono molte le cause che ad Adua portarono alla bruciante sconfitta dell’esercito di Baratieri contro l’esercito degli Abissini guidato dall’imperatore di Etiopia Menelik II (Angolela 1844 – Addis Abeba 1913), una battaglia che, com’è noto, causò la perdita di molti più uomini che in tutte le guerre risorgimentali: 11.000 circa tra le file italiane (tra morti, feriti e prigionieri), dai 12.000 ai 17.000 circa tra le file abissine. Tra le cause ci furono i rapporti tesi tra Baratieri e i suoi sottoposti: il generale Matteo Albertone che guidò la brigata di ascari eritrei nella battaglia di Adu (la colonna di sinistra dello schieramento italiano); il generale Giuseppe Arimondi che aveva raggiunto il grado di generale grazie alla vittoria di Agordat nel 1893 e che a Adua comandò la I brigata fanteria (la colonna centrale dello schieramento italiano); il generale Vittorio Emanuele Dabormida comandante della colonna di destra dello schieramento italiano e che proprio a Adua trovò la morte; il generale Giuseppe Ellena che comandava la riserva. 

La tattica attendista di Baratieri fu costretta a cedere di fronte alle posizioni nettamente opposte dei suoi quattro generali durante il consiglio di guerra del 23 febbraio 1896: l’avanzare a tutti i costi di fronte al nemico, per evitare il ripensamento di Baratieri, sarebbe stata una giusta decisione se il numero dei soldati dei due schieramenti fosse stato equivalente, se l’esercito italiano avesse avuto a disposizione una mappa topografica precisa e corretta e se i telegrafi ottici per le comunicazioni urgenti fossero stati portati con sé prima di cominciare la marcia verso Adua.

Lo schieramento italiano constava invece di 17.800 uomini (tra soldati nazionali e indigeni, gli ascari) e di 56 cannoni, mentre quello di Menelik poteva contare su 100.000-120.000 uomini e 42 cannoni. La mappa topografica era disegnata in maniera approssimativa, senza proporzioni e in una scala sbagliata che, in particolare, mise in errore il generale Albertone che fece avanzare troppo le sue truppe superando il luogo dove Baratieri e i suoi quattro generali si sarebbero dovuti riunire. 

L’equipaggiamento inadatto alla morfologia e al clima etiope, che sarà purtroppo una costante anche per altre guerre italiane, e la mancata preparazione delle truppe fu un’altra causa che contribuì alla disfatta italiana.

La gravità della sconfitta militare e la perdita di prestigio internazionale fu enorme tanto da far esplodere il malcontento popolare, alimentato anche dalla stampa; in alcune città come Milano, Torino, Firenze e Napoli si verificarono scontri e tumulti che costrinsero Francesco Crispi a dimettersi, mentre per Baratieri si aprirono nel giugno 1896 le porte del tribunale militare di Asmara. Molte furono le sue colpe, anche quella di essere rimasto vivo mentre 10.000 dei suoi soldati erano morti o prigionieri, ma la colpa più grave fu probabilmente quella di aver ‘abbandonato’ la colonia di Adi Caièh dove arrivò col resto del suo esercito la mattina del 3 marzo quando era ancora governatore. Nonostante il proscioglimento da tutte le accuse, Baratieri fu collocato a riposo su sua richiesta nello stesso 1896, abbandonando così una gloriosa carriera militare. In realtà il proscioglimento penale fu un atto di accusa e di condanna morale nei confronti dell’inabilità dimostrata dal generale durante la battaglia; recitava infatti la sentenza: “Il tribunale non può astenersi dal deplorare che il comando delle cose in una lotta così diseguale, in circostanze così difficili fosse affidato a un generale che si dimostrò tanto al di sotto delle esigenze della situazione ….”. 

Fu Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908), il pittore livornese esponente della corrente pittorica dei Macchiaioli, che espresse con amara verità la deriva dell’esercito italiano con Adua, incisione realizzata agli inizi del ‘900. L’incisione è oggi conservata al Museo della Grafica dell’Università di Pisa, un piccolo ma importante gioiello per la grafica otto-novecentesca italiana che deve la sua fondazione allo storico e critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti che nel 1957, allora direttore dell’Istituto di Storia delle Arti, fondò il Gabinetto Disegni e Stampe dell’Università di Pisa accogliendo il primo nucleo di opere grafiche appartenuto a Sebastiano Timpanaro, tra cui l’intero corpus grafico di Giovanni Fattori. La collezione fu poi arricchita grazie alle donazioni che gli artisti fecero all’Università di Pisa in seguito all’appello di un’altra grande figura della cultura e della storia del Novecento Italiano, Giulio Carlo Argan e della stessa collezione di grafica che gli eredi dello storico e critico d’arte romano donarono alla collezione universitaria. La prima collezione pubblica di grafica non ebbe tuttavia una sede idonea aperta al pubblico fino al 2007 quando, in seguito ad una convenzione stipulata tra l’Università di Pisa, proprietaria della collezione di grafica, e il Comune di Pisa, proprietario di Palazzo Lanfranchi, essa fu ospitata in uno dei più scenografici e suggestivi palazzi dei lungarni pisani.  

Intorno al 1880 Fattori aveva già realizzato un’opera molto simile, per soggetto e per messaggio: Lo staffato, dipinto ad olio conservato alla Galleria di Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze. In questo dipinto, dalla rivoluzionaria struttura compositiva, caratterizzata dalla dilatazione prospettica dell’orizzonte invece che dal più tradizionale restringimento, Fattori aveva già simbolicamente rappresentato la deriva del soldato italiano e il tramonto degli ideali risorgimentali. Il soldato, caduto da cavallo e intrappolato nella staffa dell’animale in corsa che lo trascina rovinosamente dietro di sé, lascia la sua scia di sangue sulla strada sinuosa che dà quel senso di movimento che si focalizza poi sul corpo deformato del cavallo al galoppo. 

Nell’incisione di vent’anni dopo, Adua, la definitiva crisi degli ideali risorgimentali è resa in maniera ancora più forte e straziante, grazie alla malinconica immobilità della scena: in un campo desolato s’intravedono il braccio e la mano di un soldato caduto e seminascosto dall’erba alta. Poco più lontano da lui si scorge quel che resta di un carro abbattuto, mentre, al centro della composizione, un cavallo si allontana mestamente con la testa bassa verso la solitudine dell’orizzonte. La tragicità del soggetto, se si vuole, è ancora più sottolineata dalla freddezza del colore, il nero dell’inchiostro calcografico dei segni che Fattori ha lasciato sulla lastra di zinco, poi stampati sulla carta. 

L’affascinante tecnica che l’artista livornese ha utilizzato è infatti l’incisione ad acquaforte su lastra di zinco. Giovanni Fattori non fu solo pittore, ma nell’ultima parte della sua vita si dedicò anche all’incisione, in particolare l’acquaforte dove l’arte si coniuga con la chimica. 

Dopo un’accurata pulitura della superficie metallica l’artista la protegge con una sostanza isolante che spalma sulla superficie e che poi affumica affinché la sostanza risulti di una consistenza cerosa. A quel punto l’artista è pronto a tracciare tanti segni sulla superficie cerata della lastra con una punta metallica in modo da realizzare l’immagine che vuole realizzare. Completata la fase della cosiddetta graffiatura della lastra, l’artista la immerge in una soluzione di acqua e acido; in questa fase, detta morsura, l’acido con la sua proprietà corrosiva incide la lastra solo in quei segni dove l’artista, graffiando via la sostanza isolante, ha lasciato scoperta la superficie metallica. Terminato il bagno di morsura, la lastra viene completamente pulita dalla sostanza isolante e inchiostrata con dell’inchiostro calcografico che l’artista avrà cura di far penetrare fino in fondo ai segni incisi. L’artista può infine dedicarsi alla fase della stampa e riportare l’immagine incisa dalla lastra al foglio di carta utilizzando un torchio calcografico. Solo dopo successivi bagni di morsura e successive prove di stampa, l’artista avrà realizzato la sua opera finale, pronta per essere stampata in più tirature.